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Punti di vista

Il violino sul lago vi ha fatto sognare. Non solo bitume: Como merita, chiede carezze. Dolcezza

Cosa ci dicono migliaia e migliaia di letture, centinaia di condivisioni e “mi piace”, molti commenti a cuore aperto sulla notizia – o meglio, sulla microanticipazione – del progetto culturale “Floating Moving Concerts” che a fine agosto vedrà violinisti e pianisti fluttuare e suonare in mezzo al lago, su un palco galleggiante, davanti a Cernobbio? In assoluto niente, ovvio.

Non è certo da un pugno – per quanto grosso – di interazioni social o di clic su un sito a permettere analisi sociologiche o simili. E però, senza indossare improvvisate vesti professionali nel vaporoso campo delle scienze umane, almeno una suggestione emerge.

E quella suggestione sussurra questo concetto, in fondo: i comaschi, come peraltro qualsiasi individuo su questa Terra un po’ spompa, non chiedono, forse nemmeno vogliono, soltanto tombini, michette, manganelli e funerea quiete per vivere bene.

Così come, probabilmente – e azzardiamo persino un birichino “giustamente” – certo non hanno ancora familiarizzato appieno con le orde di turisti che hanno spinto intere piazze a diventare enormi mangiatoie H 24 o posteggi per “bisonti”, vetuste palazzine reinventate Bed and Breakfast nel volgere di una notte, un centro pericolosamente vicino alla Sindrome di Disneyland (ma questa è un’altra storia, che ha anche molte luci oltre a semplicistiche ombre, e magari ci torneremo nello specifico).

Si diceva: forse i comaschi chiedono davvero qualcosa di più a questa città – ma per estensione al territorio tutto – che non soltanto lingue d’asfalto, porfido intonso e semafori lindi, come pure qualcuno si ostina a credere e proclamare (le polemiche sul Giro d’Italia, poi spazzate via dalla riuscita della giornata e dalla soddisfazione di migliaia di appassionati, restano un monito altisonante).

Tornando ad asfalti e ghisa, si tratta di cose senza dubbio necessarie, che il mitologico contribuente chiede con piena legittimità agli amministratori del momento, di qualunque momento. E fa bene: sarebbe stolto affrmare che la vita quotidiana di migliaia di persone sia più influenzata da liriche e sonetti che non da vie tenbrose, buche o strisce pedonali sdentate. Ma si può vivere bene. E poi si può vivere meglio. Non è la stessa cosa.

Eppure, per paradosso, il punto è proprio questo: strade illuminate, senza crateri e attraversabili in sicurezza dovrebbero essere elementi naturali – anzi, sono elementi naturali nei limiti dell’umano – in una città che ha pure l’onore/onere di essere capoluogo.

Che poi la perfezione non esista, soprattutto in un contesto urbano, questo dovrebbe essere altrettanto naturale da recepire. Ma vabè: anche a Como (soprattutto a Como?) la nostra stessa categoria – per molti la risibile “kasta dei giornalisti” – oggettivamente talora esaspera così tanto le banalità dell’urbe che finisce per alimentare lo stesso circolo vizioso che poi condanna a penna sguainata. Inoppugnabile e colpevole verità.

Tutto questo per dire cosa, allora? Per dire che esattamente come la Grande Storia non sarà mai né studiata né ricordata per la vita minima e quotidiana sotto l’Impero Romano, sotto Napoleone Bonaparte o sotto il pentapartito, bensì per i grandi eventi, le grandi riforme, le grandi tragedie e i grandi personaggi che hanno marchiato l’andare dei lustri, così forse anche l’incedere di Como, delle sue donne, dei suoi uomini, dei suoi giovani, dei suoi capitani d’industria avrebbe bisogno (o almeno gradirebbe, secondo la tesi di questo articolo), uno scatto poetico, coraggioso, simbolico. Fuori dall’ordinario.

Un momento, un lampo, un gesto, un’opera – se già ridete pensando alle paratie, avete comunque ragione – che possa marchiare questo tempo. Che possa stupire, affascinare, strappare la città alla sua routine da copertina ma forse anche un po’stanca, un po’ consunta, un po’troppo autocoinvinta che la distopica perfezione di una fogna possa essere il segno del progresso o della regressione.

Si potrebbe anche partire senza sognare la Tour Eiffel in piazza Cavour, un tunnel a nove code sotto il lago, la Piramide di Cheope a Camerlata. Si potrebbe partire con un palco galleggiante in una sera d’estate, con violini e arpe nelle piazze al posto dell’orda selvaggia di “buttadentro” spontanei pronti a ghermirti come falchi a ogni passaggio davanti al bar, a viuzze e stradoni avvolti in grandi stole di seta, alla sagoma austera di Alessandro Volta proiettata sul Baradello e altri palazzi antichi per una notte, al volto di Terragni che irrompa (silenzioso) sulla candida facciata della Casa del Fascio.

Si potrebbe iniziare con la gentilezza, con la delicatezza, con i simboli di questa terra così tanto routinaria ma così genuinamente geniale; con una carezza che avvolga soltanto con un pizzico di stupore e qualche piccola magia, senza fracassi o grancasse. Come le onde del lago che cullerano violini e pianoforte ad agosto.

Si potrebbe cominciare, forse, a parlare anche al cuore di questa città, ai suoi sentimenti, alla sua vena immaginaria e immaginifica, e non più soltanto al Gran Catasto che batte fiacco sotto i doppiopetti grigio-Breda. La sensazione, d’altronde, è che sotto il finto slogan “bitume-uber-alles”, non siano pochi gli spiriti lariani potenzialmente felici di accogliere un’attenzione oltre il quotidiano, un gesto piccolo ma fuori dal bigio tran-tran di autovelox e marciapiedi.

Como la ruota panoramica ai giardini a lago

Autovelox e marciapiedi: cose che restano essenziali, ci mancherebbe. Ma provare a staccarli, da terra, questi piedoni saggi e cementati, potrebbe persino essere bellissimo. E a chi saprà mettere le ali, immaginiamo, potrebbe andare una riconoscenza del tutto paragonabile a quelle per un tombino nuovo, per una siepe tagliata. Magari pure superiore, chissà, anche fosse solo per i tre minuti di un tramonto in musica, anche solo dopo qualche nota di violino sospesa sull’acqua, persino per il facile romanticismo di un Broletto di seta.

Un balzo minimo e sentimentale fuori e oltre il recinto forzato di betoniere e cubetti di granito. Atterrando in una buca, subito dopo, ovviamente. Eppure con qualcosa di piacevole da raccontare, una volta tanto, oltre alla cotoletta buona per Instagram e al sempiterno sfogo rabbioso su Facebook per 30 centimentri d’asfalto.

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